amo le rughe, la rabbia, le ninnenanne, la carta, appiccicare cose alle pareti, avere le dita sporche d'inchiostro, il pane, l'acqua, camminare scalza, i lucernari, le vecchie corde della mia chitarra, le biblioteche, leggere tra le righe, i treni,le altalene, perdermi, i bastoni della pioggia, le bacchette magiche, i pistacchi, i pacchetti, i regali, il mojito, fare l'amore, la polvere innamorata negli occhi.

mercoledì 24 marzo 2010

Perché ho usato quelle parole


Mi sveglio e per prima cosa controllo il cellulare, visto com'è andata a finire ieri non si sa mai. Tiro fuori quasi tutti i vestiti e alla fine ne scelgo uno rosso, il rosso mi piace, mi incalza, mi sferza.
Poi scendo a fare colazione e la casa è immersa in una bolla: la figura paterna si muove come un cospiratore, bisbiglia che "sssht, tua madre non ha dormito stanotte" e a me viene da ridere, perché come al solito io non dormo da venerdì e dopo 6 notti in bianco al massimo mi becco le sue battutine sul ritorno del Tomtom, mentre dopo una notte sola lei fa fermare la casa: ha chiuso tutte le porte, lasciato fuori il gatto che mi fissa cercando di corrompermi con quell'aria disperata che ha meticolosamente perfezionato nel corso degli anni. Certo, mi fa un po' innervosire ma in fondo è carino che dopo 40 anni siano ancora così.

Mi ricorda la prima volta che ho detto "ti amo", e in realtà non l'ho detto: lui era stato il primo ma io ancora non me la sentivo di rispondergli, non mi è mai piaciuto usare le parole a caso e probabilmente lo stesso, ripensandoci, le ho dette troppo; però un giorno mi è uscito quel "ciao" e chissà come lui ha sentito "ti amo", l'ho capito subito che aveva sentito male, per come gli si erano illuminati gli occhi, e non ho avuto cuore di correggerlo. Ho lasciato che fosse, perché tanto sapevo che sarebbe arrivato anche per me.

Fa caldo, e sostituisco il giubbotto pesante con il cappottino nero; con questo sole, i confini sono più netti: li sbircio dal finestrino del treno, che ho preso come sempre in ritardo.
Le strade, le case, gli orti sono più zitti in queste mattine improvvise di sole. Chissà a Siviglia quanto farà caldo?
Chissà quali posti scoveremo per mangiare, quali viottoli pieni di sciocche meraviglie, il finestrino si appanna mentre ci penso, una ragazza fruga dentro a un sacchetto.
Entro all'e.r. con quel passo deciso che ho quando penso a qualcosa, la gente in fila per una visita si volta a guardare quell'unica persona che sembra avere fretta di entrarci. Dal bar il solito profumo di brioche e cappuccino mi rincorre; non capisci mai quanto forte sia finché non esci dall'Italia e provi istintivamente a cercarlo. Ma non lo trovi. Non lo trovi mai.
Come sarà il profumo dell'Andalusia? Saprà di burro, di sale, di arance? Saprà di vento e di limoni e di foto con il mare alle spalle?

E' strano essere arrabbiata ed avere voglia di abbracciarlo. Eppure, con lui, mi capita sempre. Ieri mi sono arrabbiata tantissimo eppure, se fosse qui, vorrei farlo.

Di fronte a me una signora con il cappello mi fa perdere la pazienza, la supero, lascio gli ascensori zeppi per le scale, che mi fanno arrivare in cima strapazzata dal caldo. In borsa i soliti 4 kg di fogli, trucchi, penne, pastiglie, gomme, ombrelli, auricolari, bottiglie d'acqua, fotografie: mi rallentano, ma mi danno ispirazione; per questo me li porto dietro.
E dopo sei piani incrocio McBesame e gli dedico il primo sorriso della giornata - sembra tutto normale oggi, tutto come al solito e invece io, zitta zitta, so che non è così per niente.

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