amo le rughe, la rabbia, le ninnenanne, la carta, appiccicare cose alle pareti, avere le dita sporche d'inchiostro, il pane, l'acqua, camminare scalza, i lucernari, le vecchie corde della mia chitarra, le biblioteche, leggere tra le righe, i treni,le altalene, perdermi, i bastoni della pioggia, le bacchette magiche, i pistacchi, i pacchetti, i regali, il mojito, fare l'amore, la polvere innamorata negli occhi.

martedì 15 giugno 2010

Casa

Il 17 giugno 2006, di ritorno da una solitaria camminata in mezzo a quella garrula deflagrazione di verde che, nella campagna circostante, non teneva evidentemente conto dei miei discapiti interiori, ho fatto un sogno.
Il tempo era tornato indietro di 1 settimana ed 1 mese, cosicché Marta e Giulia erano ancora con noi e lo si scopriva tramite un formidabile passaparola (anche se, devo dire, io in qualche modo lo sapevo già). Quello che risultava subito chiaro era che il tempo, le vicende, non si potevano modificare: sarebbe successo di nuovo.
Noi però, anziché scoraggiarci e disperarci, abbiamo tutti ringraziato il cielo (una sensazione che non si dimentica) per quel regalo, per potercele godere, coccolare, salutare di nuovo, per una settimana. A loro non abbiamo raccontato nulla, chiaramente.
E' un sogno che tengo ancora stretto.
Io, questo, lo chiamo famiglia: non può essere solo questione di sangue. Marta e Giulia fanno molto più parte di me di un certificato di nascita.
E' bello, perciò, vedere che anche il tuo "ufficiale", di nido, è tale anche per dettagli, somiglianze, ricordi spassosi: quel dito storto preso in toto dalla figura paterna. La volta in cui, per fare una sorpresa alla figura materna, hai raccolto tutti i fiori bianchi dalle piante di fragole, gonfiandotene generosamente il vestito.
E' bello capire così tanto che vieni da lì, proprio da loro, quando figura paterna e materna partono tutti pimpanti su tacchi pantaloni collane e antizanzare per quello spettacolo di cui tu e Fratello gli avete regalato i biglietti, e a metà strada stai per regalarti una doccia fresca e profumata che ti stacchi di dosso la stanchezza del giorno, e te li immagini già a discutere su dove parcheggiare, che se c'è una cosa che la figura paterna non ha in comune con te è la tendenza a prendersi all'ultimo momento, quando una chiamata dai toni anarco-prefico-disperati ti strappa ai tuoi pensieri brutalmente, supplicandoti di andare loro incontro perché hanno dimenticato a casa i biglietti.

Non è sempre stato così. Ci sono luoghi che, in passato, ho chiamato casa molto più di queste quattro mura al n.15. Perché lì si trasferiva la mia quotidiana esistenza, con amore, dubbi e doveri, gioie e persone con cui dormire in gruppo stretti stretti in un letto da 2.
Ricordo le testate nel letto di C, e quello inquietante del suo coinquilino che sapeva di dopobarba e aveva il duce sopra la testa. Ricordo M con i suoi libri sparsi sul pavimento, le filosofie con K nel bagno freddo, le lampade i poster e i cappelli. Ricordo F che russava e litigate alle 5 del mattino e ricordo, soprattutto, tempo su tempo trascorso in quella facoltà.
Entrarci, ora, ripercorrere quelle strade, è una violenza che mi fa trascinare ogni passo perché quelle zone, quei corridoi e botteghe dalle porte strette, non sono più casa mia. Ma non sono neanche ex.
Chiedere informazioni come una matricola, io che ne conoscevo i segreti a memoria. Conoscevo i pertugi, i punti all'ombra e l'intonaco dove si scrostava. Ne conoscevo i pavimenti ed il respiro traballante. Lì avevo studiato, avevo pianto fingendo di ridere, mi ero innamorata ripetutamente. Ora torno, e mi è scaduta una tessera. Il negozio che era diventato Blockbuster è diventato ancora dell'altro. La libreria che pubblicava i libri di S ha il cartello Affittasi e la serranda abbassata.
Il Salottino, quel rettangolo vivido nel giardino interno in cui ho mangiato, baciato, studiato, sbriciolato storie, schiamazzato e brindato insieme a quel clan di dolcissimi squinternati, ora ha un recinto. Anni di ritrovi, di vita concentrata in quell'unico punto del globo, rinchiusi fra due paletti ed un fil di ferro.
Non bisognerebbe poter togliere così gli indirizzi alle famiglie.

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