amo le rughe, la rabbia, le ninnenanne, la carta, appiccicare cose alle pareti, avere le dita sporche d'inchiostro, il pane, l'acqua, camminare scalza, i lucernari, le vecchie corde della mia chitarra, le biblioteche, leggere tra le righe, i treni,le altalene, perdermi, i bastoni della pioggia, le bacchette magiche, i pistacchi, i pacchetti, i regali, il mojito, fare l'amore, la polvere innamorata negli occhi.

sabato 3 luglio 2010


Non l’avevo mai visto tenere una lezione. L’avevo incrociato, il primo giono di università, molti anni fa – e quella scena mi era bastata.

Io avrei vissuto la mia carriera universitaria, lui la sua, possibilmente senza incrociarci e senza che questo rattristasse l’esistenza di uno dei due. In fondo era seccante, ora, dover sostenere un esame con lui, una cosa da mastercard… ma sedersi all’appello in mezzo a decine di imberbi e vedere Tomicio che entra da quella stessa porta, be’, non ha prezzo, e vale pure la pena di sorbirsi il prof.

Però, ecco, c’è una cosa che mi piace di me ed è questa capacità di superare, in caso, un’antipatia nata a pelle: se un giorno sbuca l’occasione, non mi rifiuto di cambiare idea; oppure, senza arrivare a tanto, di godermi il momento allontanando, finché dura, i preconcetti per riuscire a ricavarne tutto il buono che posso.

C’è anche un’altra cosa che mi capita spesso: a quei prof odiati e temuti e universalmente riconosciuti come Gran Ciambellani della Bastardaggine, io piaccio. Al momento dell’esame si finisce sempre per trovare un dialogo fluido e interessante e per nulla viziato dalle differenze di status, qualcosa che lascia entrambi evidentemente soddisfatti. Da ringraziare per aver potuto sostenere quell’esame, robe da matti.

Così è andata ieri. Proprio nel momento giusto sono arrivati questi 45 minuti di esame orale che più che un esame sono stati uno scambio (in cui sono riuscita a trascinarlo, sebbene si trattasse di traduzione, evoluzione e registri della lingua anglo-americana, in un’appassionante discussione sui Malavoglia, su scarsi narratori contemporanei che utilizzano l’inizio in medias res per coprire le loro carenze, e sulla Califfa di Bevilacqua).

È stato bello, anche, quando verso la fine dell’esame mi ha chiesto: Lei lavora? – e non per bistrattare ciò che evidentemente distraeva e rallentava il mio percorso, ma perché “aveva notato in me una maturità sicuramente sconosciuta alle colleghe presenti, ed una capacità, man mano che l’esame avanzava, di sovrapporgli un processo di autoanalisi ed autovalutazione molto più importante dell’esame stesso.”

“Perché avevo una buona preparazione di fondo, una cultura generale che mi permetteva di spaziare e collegare argomenti con indiscusse capacità logiche.”

“Perché non era stato un esame univoco ma uno scambio in cui lui portava qualcosa ed io portavo qualcos’altro, e tutto ciò valeva molto più di qualunque voto su un libretto”, e quando gli ho spiegato che sì, in effetti mi dispiaceva che lavorare allungasse così tanto i miei tempi, ma quello che era certo è che mi aveva dato una consapevolezza completamente nuova nell'affrontare anche gli studi, lui mi ha consigliato di leggere Allan Sillitoe.

E lo sto scrivendo qui non per bullarmi ma perché non vorrei, col tempo, rischiare di dimenticarmi di tutto questo.

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