amo le rughe, la rabbia, le ninnenanne, la carta, appiccicare cose alle pareti, avere le dita sporche d'inchiostro, il pane, l'acqua, camminare scalza, i lucernari, le vecchie corde della mia chitarra, le biblioteche, leggere tra le righe, i treni,le altalene, perdermi, i bastoni della pioggia, le bacchette magiche, i pistacchi, i pacchetti, i regali, il mojito, fare l'amore, la polvere innamorata negli occhi.

mercoledì 17 luglio 2013



La verità è che non facciamo altro che sentirci differenti tutto il tempo, ma a volte ci somigliamo più di quello che vorremmo. E sarà per una specie di pudore che negli anni certe cose le ho ficcate in punti bui, ben nascosti, il pudore di non diventare come taluni loschi figuri da inaugurazione con buffet; quelli che no, non è vero che sai scrivere/dipingere/suonare/ecc - nonostante il buffet. La paura di scoprirmi, in fondo, uguale.
Eppure mi ha fatta sorridere, domenica, vedere queste tre coppie (la mia compresa) tanto diverse fra loro, come persone e come età (della coppia), discutere per gli stessi motivi, come un ritornello. A volte, gira e rigira, è così che funziona. Invece eccoci, ognuno a voler essere a tutti i costi infelice a modo suo, con i problemi più grandi degli altri, per avere più significato, più poesia degli altri. Sarà per questo che le più belle canzoni d'amore sono per quelli finiti, difficili o mai corrisposti?


Layla, you've got me on my knees/Layla, I'm begging, darling please

You promised me everything, you promised me thick and thin yeah/Now you just say Romeo yeah you know I used to have a scene with him

I sit here on the stairs cause I'd rather be alone/if I can't have you right now I'll wait dear

If I make you feel second best/Girl I'm so sorry I was blind/You were always on my mind

Ovunque sei, se ascolterai/Accanto a te mi troverai/Vedrai lo sguardo che per me parlò

Nevermind I'll find someone like you

E siccome è facile incontrarsi anche in una grande città/e tu sai che io potrei purtroppo non esser più solo/cerca di evitare tutti i posti che frequento e che conosci anche tu

ma soprattutto

It's been 7 hours and 15 days

Quindi leggevo quel racconto di Sillitoe, tempo fa, con queste persone, queste coppie, uguali ma diverse nel finale al riparo dal mondo, e pensavo "Sì, sì" mentre leggevo l'ultima immagine, pensavo affanculo le pose da poeta da quattro soldi, forse è questo il trucco: non tentare sempre di distinguersi nei problemi, nel pantano e nell'infelicità per darsi spessore, ma imparare ad essere diversi nell'essere felici, a modo nostro, come non lo è mai stato nessuno.


Era il 17 giugno 2006, avevo comprato cheerios, broccoli e parmigiano e mi ero preparata per il treno delle dieci sentendomi nettamente più infelice degli altri.
Che mese confuso era stato, pieno di teste che si inclinavano da un lato nel salutarmi, di inviti e pacche sulle spalle che si intrufolavano nel mio sbalordimento, solo per guardarlo. Poi quel giorno - ho perfino fotografato la mia faccia, quel giorno, per non scordarla mai. Così, senza preavviso, mi sono dovuta guardare in faccia come non avevo mai fatto prima.
Era il 17 giugno 2006 e la mia amica, la mia sorella, la mia coscienza era morta da un mese; uno stupido incidente insieme a sua sorella (vera) me le aveva portate via entrambe nella canicola di un mezzogiorno siciliano di vacanza. Ci sentiamo quando torno, mi aveva detto. Ti porto una torta. Come funziona male questo telefono.
Mi sono guardata, tagliente attraverso lo specchio (proprio io che ho tutti i lineamenti rotondi) e ho pensato che non volevo starci, in quella storia ed in quel pezzo di carta che mi penzolavano addosso come un portachiavi omaggio. Mi sono guardata con la violenza di un foglio bianco ed ho ammesso a me stessa di essermi persa.



E lo sapevo, giuro, lo sapevo da quando l'hai saputo tu, ché io a volte - non so spiegartelo - le cose le so e basta. Se a qualcuno, o qualcosa, tengo molto, mi sintonizzo. Però (e qui sta la fregatura) preferisco dare il beneficio del dubbio, sperare di lasciarmi sorprendere, ché una che si comporta da stronza non per forza lo è, poi magari vorrà rimediare, no?  Se sa di aver agito male - no? E se non sa da dove cominciare, beh, ora un punto ce l'ha, no?

"Ehi, ciao, so di averla combinata grossa ma c'è questa notizia e la voglio condividere con la mia amica, con lei e non con cani e porci in facebook".

Chissà su cosa ci si sbaglia più spesso, sugli stronzi o sugli amici.

martedì 11 giugno 2013


Non è bello, tra vicini, allungare le braccia al di sopra della siepe per passare quel frutto, quel piatto preparato particolarmente bene? I vicini portano da mangiare quando muore qualcuno, diceva Scout ne Il buio oltre la siepe. Quel buio che è la paura dello sconosciuto da superare per un piatto fumante, per una risata, ma senza toglierla, la siepe, come da proverbio; senza perdere la possibilità di immaginare cosa ci sia dietro, e di proteggere quello che c'è dentro. 
Una siepe, in fondo, non è una cosa preziosa? Non ti toglie la possibilità di superarla quando giochi a pallone e sbagli tiro, quando due occhi come i tuoi, diversi dai tuoi, ti fissano tra le foglie. Uscire nelle sere d'estate e trovare la tua siepe come troveresti un pezzo dell'esistenza che costruisci giorno per giorno, che difendi giorno per giorno perché è quello, l'essenziale: il tè preparato la mattina, uscire a guardare un pezzetto di cielo, quei cinque minuti di gioia che dilatano lo spazio. 
Ci vuole impegno, per avere una siepe. Ci vogliono priorità che non siano il tipo di auto, l'attenzione altrui o l'orario a cui rientrare la sera. Ci vogliono scelte. Una siepe ti ricorda l'essenziale, ti avvicina alle tue persone; una siepe, anche, ti ricorda di guardare oltre, di alzare lo sguardo. Sposta la concentrazione dal nostro piccolo io agli altri, prima di tutto quelli che si trovano al suo interno con noi, poi la curiosità verso l'esterno. 
Puoi chiudere gli occhi e ascoltare le voci e aprirti come un fiore che dorma di giorno e sbocci la notte, avvicinarti alle origini, alle piante, per togliere l'impiccio delle leggi esterne e puntare all'intimità senza accontentarsi delle convenzioni.
Per un turista non c'è speranza. Ma se sei un viaggiatore, viaggi anche in un giardino, all'interno di una siepe. E al tuo ritorno vedi la tua vita e quella degli altri con maggiore chiarezza.

Qualche volta fingo di essere meno complicata di quello che sono, lascio che le cose scivolino come l'acqua sui piedi quando ti siedi sulla battigia, e presa dalla risacca non scrivo, stappo una bottiglia di vino, sento l'erba, scatto molte foto. Poi torna il momento di chiarirsi, di esplorarsi, e con lui la penna.
E' difficile dire cosa sia peggio fra un padre che ti muore all'improvviso per una disgrazia e l'essere cresciuta con un padre più vecchio, conoscendo prima degli altri bambini la consapevolezza che un giorno morirà. Certo, detta così la risposta sembra scontata; ma è una cosa che ti aggroviglia le budella, crescere controllandolo mentre dorme, di tanto in tanto, per essere sicura che respiri. Abbiamo responsabilità che nemmeno immaginiamo, quando facciamo un figlio.
Siamo complicati, tutti, tanto da leggere un messaggio della ex del Carota (l'altra, quella simpatica) e provare una tenerezza infinita di fronte a quel modo di scrivere "è morto il mio papà", e allo stesso tempo a chiederti perché ogni volta che ha un problema finisca per chiamare lui, e anche se sono passati anni, anche se ha avuto una storia importante in mezzo, alla fine è da lui che torna. Certo, un ex ha quel sapore di famiglia, almeno a me capita di viverla così, che me li coccolerei e li vorrei felici e trovo simpatiche le loro nuove ragazze, perché diventano come fratelli o amici d'infanzia con cui hai condiviso tavolo, famiglia e un pezzetto di strada. Ma poi chi dice che una stessa cosa, uno stesso posto, debbano avere lo stesso significato per tutti? Non credo sia così per molti. E non credo sia giusto continuare a sobbarcarsi i sentimenti delle persone che abbiamo lasciato indietro o che non vogliono il nostro bene, soprattutto non credo sia giusto continuare a sobbarcarsi i sentimenti delle ex del tuo ragazzo, per non finire a sentirti un'estranea che tenta di intrufolarsi nelle vite altrui.
Di difetti ne ho tanti ed evidenti, fra questi non c'è la meschinità, e la spontaneità mi porterebbe a fare cose che, mi rendo conto, secondo le regole comuni mi porterebbero a spazzare cocci. Ma ci tengo. Ci tengo e non ho nessuna intenzione di trovarmi con i cocci di una cosa che è mia e non è più tua. Perciò scusami M., ti abbraccerei se potessi, che il tuo papà mi ricorda il mio, ma adesso l'estranea nella sua vita sei tu e allora spero che tante persone ti stiano vicine e riescano ad allontanarti quell'orrendo dubbio. Spero che A. sia uomo abbastanza da sorvolare sull'esservi appena lasciati, e che tua madre sia madre abbastanza da dimenticare che litigavano per la casa, e ti diano quell'abbraccio grande che io non ti farò avere perché ho la mia piccola siepe da proteggere.

"- Te, io ti amerò fino alla fine dei miei giorni, dico.
Si volta contro il muro, e dice soltanto: Accontentati di amarmi ogni giorno."
Daniel Pennac

giovedì 2 maggio 2013


"E' la vita per cui sono nato: dipingere, ammirare, sognare."
Giuseppe De Nittis



Le cose che ti vengono incontro non sono sempre incidenti disastrosi in galleria. A volte è fermarsi ad amare lo stesso quadro, con quella luce strana che entra dalla finestra e la vecchia e la ragazza che si dividono la quiete di una domenica pomeriggio passata a lavorare più lentamente; e sarà nulla, ma in fondo sembra una specie di miracolo. Perché non siamo né due snob ad un master sull'uso del bianco nei quadri di Vermeer, e nemmeno due arricchiti che si bullano con imitazioni raccattate da un manierista un po' volgare. Siamo due sensibilità, spesso diverse, fino ad un paio di anni fa pressoché sconosciute, che si incontrano e si amalgamano e si vengono incontro così, di fronte ad un quadro appoggiato ad una sedia all'improvviso una domenica pomeriggio. E allora mi dispiace parecchio, di non aver chiesto quanto costasse - tanto, lo so, tanto - quel quadro, di non averci almeno provato, a portare a casa una cosa che ci raccontava, anche se appena incontrata lungo la via.
Ma le cose che ti vengono incontro sono anche i sorrisi di Giovanna, che quando è arrivata all'e.r. non riusciva a muoversi e non diceva nulla, ti guardava infastidita quando le parlavi per via di una malattia che ancora non si capiva. E invece oggi sorrideva, Giovanna, e mi raccontava della sua cameretta gongolando al pensiero di quando potrà raggiungerla facendo le scale con il sedere; oggi mi ha mostrato di riuscire a fare la ballerina con le dita dei piedi, lei che di sport tira di scherma, e pazienza se i piedi rimangono ancora immobili, facciamo passi da ballerina noi, e il fatto che mi abbia chiesto "Mi insegni a fare questa cosa?" mi ha spiegato forse più di quelle analisi sui suoi riflessi che ancora provocano malumori.
Ci sono i ricordi, che ti vengono incontro di soppiatto (le caramelle nascoste nel mobile basso della credenza, sotto le tazzine da tè). Ci sono anche certi libri, perché non bisogna forzarli, i libri. Devi aspettare che siano pronti, che ti vogliano sentire gli occhi, le mani, che ti vogliano parlare.
E la bellezza, quando arriva, come arriva. De Nittis, con le sue contraddizioni da combattere appassionatamente e poi la casa con le violaciocche e gli inviti in cui riceveva applausi dagli amici Dumas, Manet, Degas, non per le tele sui boulevard ma per le lasagne che sapeva preparare. E poi il modo che aveva di guardare le donne, vivace e delicato ma in fondo meravigliato, in un periodo in cui le donne venivano guardate poco. 
Tentare, ogni giorno, di scovare un buon motivo - a passi di ballerina.

lunedì 15 aprile 2013

Good bye vip

 "Che strano, non è cambiato niente."
"Perché, doveva cambiare qualcosa?"



Eppure vivere in un paese con la cinta muraria intatta non è la stessa cosa che non. Si sente nel modo di fare, che abiti in un'isola. Ed è un'isola di vip che, man mano che ti allontani dalle mura verso la periferia, si tingono di colori più azzimi e genuini, da forno a legna e porticati, giacché qui in Veneto si è vip non per meriti ma per territorio, e il senso di appartenenza viene dalla storia che altri hanno creato per noi e che abbiamo trovato pronta, confezionata da una boutique del centro. Siamo tutti valvassori e valvassini di un feudatario pronto a piacerci a priori, solo perché vorremmo anche noi stare lì.
Da quando ho memoria, io dalle mura provo a fuggire. In mezzo a tanto annaspare, ho sempre sperato con lucidità di non riscoprirmi all'improvviso un Drogo che cercava l'avventura all'interno della fortezza Bastiani; le smancerie e le meschinità da zia coi tacchi che sta sempre in prima fila ai funerali, mi hanno sempre, da sempre, tolto l'aria e la vita. Avere qualcosa da cui fuggire è indispensabile, ad alcuni più che ad altri. Scalciare mi ha aiutata a ragionare. Eppure non importa quanto sia insopprimibile il tuo bisogno di libertà: ognuno ha le sue mura che, prima o poi, vengono fuori.

Credo che le mie siano le parole; e suona strano, lo so, da chi le ama così tanto. E tuttavia uso i loro significati, se non i loro suoni, con grande parsimonia. Mi fido poco di chi si innamora in due settimane, di chi decide per sempre, di chi si diverte ogni week end in modo pazzesco e anche di chi soffre come un cane. Delle persone che hanno detto di essere innamorate di me, con metà mi sono arrabbiata per la leggerezza con cui inventavano sentimenti da film mentali. Se dopo due mesi è amore, dopo due anni cosa sarà? Non svilire i giorni che avremo, che verranno, che cercheremo. Lascia che ti scopra con il tempo, e che il nostro barattolo di buoni pensieri cresca di volume ogni giorno, ad ogni risata, insofferenza, ad ogni impigrirsi insieme per il freddo e la pioggia.

Ecco perché, nel ritrovarmi circondata da attribuzioni di migliori amiche, mi sono sentita come la madre in Good Bye Lenin che si risveglia di colpo in un mondo diverso da lei. E ce ne vuole, di coraggio, per vivere in un mondo così diverso da te, ma d'altra parte cosa puoi pretendere da un postaccio comico in cui su ebay vendono un abito da sposa "usato una sola volta"?
Continuerò a cercare le finestre illuminate all'ora di cena, a sorridere all'idea che il Carota, prima di diventare Carota, fosse un mio amico, e a leggere il giornale al bar come i vecchi che non vogliono comprarlo; che si fanno compagnia con il rumoraccio delle pagine che si accartocciano quando non riesci a voltarle, e quelle briciole e poi il segno del bicchiere proprio lì, dove anche tu stavi imprecando. E vabbé, forse c'è perfino di peggio di quei nostri amici intrappolati tra un telefilm e l'altro come se Sex and the City fosse un reale modo di vivere.
Finché al risveglio posso trovare delle storie, sono salva. Come quel quadro, scovato da un tizio a Princeton mentre passava davanti ad una piccola casa che lo teneva appeso al cancello, così, senza cornice. "Stiamo per avere ospiti a cena", gli aveva spiegato una donna dalla casa, "e mangeremo ostriche, perciò ho pensato di dipingere alcune ostriche."

giovedì 28 marzo 2013

"A tutti noi, per Dio! 
A noi!
A Dom e ai privilegi della gioventù! 
A quello che siamo e a quello che eravamo.. E a quello che saremo!"



A Firenze vado sempre di passaggio, il che un po' mi dà quel senso di colpa del superficiale e un po' una specie di complicità - mi sento autorizzata a trattarla alla pari, un peccato di superbia ma che vuoi farci, sarà sempre meglio che rovinare una cena a venti persone, perché se signori si nasce non è tanto l'aver fatto la pezzente per 5 euro il problema; ma se poi ti senti spiritosa e arguta deridendo chi si fa il mazzo per un'ora per sistemare il casino che tu hai creato, vedi, è questo che fa di te una cafona. Non ci stai bene, dove il cielo è un po' più largo (hai presente le foto della luna come la si vede dall'Africa?) e ci si cammina sotto più leggeri, con le scarpe da tip tap buone per viaggiare e poter immaginare ogni volta come sarebbe cominciare una vita diversa. No, stai bene da noi, col cielo grondante di nebbia che lo tira giù, giù, e infatti da quando sei arrivata fa un freddo cane che meno male ho portato il woolrich al posto del giubbotto di pelle.

Il concerto supera le aspettative, i Mumford sono bravi, bravi, bravi. Ti investono con un ballo di s.Vito e un momento dopo ti fiaccano di malinconia, senza risparmiarsi e senza mai toglierti l'impressione di essere al concerto di quei vecchi amici che avevi perso di vista. Ma è Palazzo Vecchio che mi frega, pensavo di non fare "la" turista e invece entro e smetto di respirare, di desiderare, di saper dire. Rientro nell'esistenza com'era anni fa: senza pareti, senza obblighi se non quello di scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo, di ascoltare le tracce lasciate in centinaia di anni da milioni di persone diverse; senza essere ancora diventati mortali.

Per un poco, scrollarsi di dosso le abitudini, le risposte sagge. E il piacere di lasciarsi alle spalle la casa, i dubbi su come dormano gli asini - perché io non lo so se quello che ho visto fosse addormentato, a me sembrava morto - di aprire le tende ai rumori del giorno, ai brusii notturni fra la voglia di abbracciarsi e di dormire da soli, dritti, di lato, con le braccia spalancate, scoprire un suono diverso e non aver voglia di perderselo neanche per alzarsi a fare pipì.
Pigiare le ansie e la voglia di arrabbiarsi in fondo ai giorni che devono venire, più avanti, possibilmente alla fine, che oggi c'è da scegliere osterie con il naso all'erta come i segugi, quelle lontane dal "pittoresco per turisti", dai fiorelletti e dai sassucci - i postacci vogliamo, perché hai visto che succede a seguire gli altri? Prezzi esosi per comprare cartoline che ti lasciano più stordito di prima.

No, io lo dico, hai mai visto Fandango? Dovresti, se non altro per quel modo di dire "Suonaci un fandango" alla fine, che non è una frase, è un modo di prendere la vita, e dopo i tre giorni di gioia, di perdersi, di tenersi per mano per non far parte degli infelici che quando sono insieme a persone felici non diventano contenti ma solo invidiosi, non mi puoi dire che anche quello non serva.

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